Impronte papillari e teorema di Bayes: “la sola prova scientifica – priva di robusti elementi di conferma – non è in grado di sorreggere la pronuncia di una sentenza di condanna“ (cfr. Trib Milano, Ufficio GIP, sent. 12380 del 18/06/2015)

22.08.2016 12:48

 

di Alberto Bazzurri

 

N. 49494/14 R.G.N.R.

N. 12380/14 R.G.GIP

Tribunale di Milano

Ufficio del Giudice per le indagini preliminari

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REPUBBLICA ITALIANA

In nome del popolo italiano

Il giudice per le indagini preliminari Dr. GIUSEPPE GENNARI

ha pronunciato la seguente sentenza nel procedimento contro:

B. C. nato a [ OMISSIS ], domiciliato in [ OMISSIS ]; via Carroccio n. 4/A

Attualmente detenuto presso il Carcere di _

Difeso di fiducia dall’avv. _

I M P U T A T O

A) del reato di cui agli artt. 56 e 628, primo e terzo comma n. 1 c.p., perché per procurarsi un ingiusto profitto, in concorso con persona non identificata, entrato nei locali del supermercato Carrefour, sito in Milano, via Rismondo n. 8/10, con il volto travisato indossando casco da motociclista, minacciando con una pistola K. J., nonché colpendolo con un pugno all’altezza dell’orecchio sinistro, intimando al K. ed ai restanti dipendenti di consegnargli i soldi contenuti nelle casse del supermercato, compiva atti idonei diretti in modo non equivoco ad impossessarsi dei predetti beni, non riuscendo nell’intento solo per la pronta reazione della persona offesa.

Con le aggravanti di avere commesso il fatto con arma, con il volto travisato e in più persone riunite.

B) del reato di cui agli artt. 110,582, 585, 576, 61 n. 2 c.p. perché, in concorso con persona non identificata, al fine di commettere il reato di cui al capo A), con la violenta condotta indicata al capo A), cagionava a K. J. contusione cranica e contusione all’avambraccio destro, giudicate guaribili in giorni cinque.

C) del reato di cui agli artt. 110, 81 cpv, 61 n. 2 c.p., 12 e 14 L. 497/74 perché in concorso con persona non identificata, al fine di commettere il reato di cui al capo A), deteneva illegalmente e portava in luogo pubblico una pistola.

D) del reato di cui agli artt. 110 e 648 c.p. perché, in concorso con persona non identificata, al fine di procurarsi in ingiusto profitto, acquistava o comunque riceveva lo scooter targato [OMISSIS], risultato provento di furto ai danni di C. A..

Reati commessi ed accertati in Milano il 14 agosto 2014.

Con la recidiva specifica, reiterata ed infraquinquennale.

 

le persone offese:

1. Legale Rappresentante pro-tempore del supermercato Carrefour, sito in Milano, via Rismondo 8/10;

2. K. J. nato in [OMISSIS]

3. C. A. nato [OMISSIS]

 

Conclusioni delle parti

Il Pubblico Ministero chiede p.b. anni quattro di reclusione ed euro 1000, aumentata per recidiva anni quattro e mesi uno ed euro 1300, aumento per la continuazione anni quattro e mesi sei ed euro 3000 di multa, ridotta per il rito anni tre di reclusione ed euro 2000 di multa

La difesa chiede assoluzione per non avere commesso il fatto, in subordine minimo della pena.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il giorno 14 agosto 2014 una volante della polizia veniva inviata presso il supermercato Carrefour di via Rismondo in Milano in quanto si era verificato un tentativo di rapina.

Una volta giunti sul posto, gli operanti assumevano informazioni utili alla prosecuzione delle indagini dal vigilante K. J.. K. riferiva che:

La mattina del 14.08.2014, mi ricordo, che mentre ero all'ingresso del predetto Supermercato, all'improvviso, entrano due individui, con caschi indossati, guanti da motociclista, entrambi armati di pistola, di cui il primo si dirigeva verso di me, colpendomi violentemente con un pugno all'altezza dell'orecchio dx, mentre il secondo malvivente, dopo aver puntato la pistola verso le casse, cercava di sottrarre i soldi, ma a quel punto dopo aver ricevuto il pugno, reagivo nei confronti del rapinatore, e mi davo alla fuga all'interno del magazzino dei Supermercato, pertanto i due malviventi visto la mia reazione a sorpresa, cercavano ugualmente di aprire qualche cassetto del punto accoglienza, ma senza poter prendere nulla. Dopo qualche minuto, i due malviventi, sempre coperti, si davano a precipitosa fuga a bordo di uno Scooter, facendo perdere le proprie tracce.

Peraltro, l’equipaggio di altra volante – già da prima giunta sul posto – apprendeva, dagli astanti, che i due malviventi si erano allontanati a bordo di un ciclomotore targato [OMISSIS].

Quello stesso giorno, poche ore più tardi, un motociclo avente medesima targa veniva rinvenuto in via Valsesia 8. Il motociclo, chiaramente utilizzato per la rapina, risultava provento di furto, commesso il precedente giorno 12 agosto. La circostanza – cioè il fatto che il motoveicolo fosse il medesimo usato dai rapinatori – veniva confermata dal teste L. P.. Peraltro L., sentito a sommarie informazioni in data 16 dicembre 2014, affermava che uno dei due rapinatori – appena terminato di picchiare il vigilante – si era rivolto all’altro con la seguente frase “jamunindi, jamunindi”. L’espressione, secondo L. che è nativo di Reggio Calabria, è in dialetto reggino e vuole dire “andiamocene”.

Il dato sicuramente più significativo, anzi l’unico sul quale è sostanzialmente costruito il processo è il seguente: sullo specchietto retrovisore destro del ciclomotore è stata rinvenuta un’impronta papillare che – secondo la relazione tecnica della polizia scientifica – appartiene al pollice della mano destra di B. C..

Sulla base di questo dato – “colorato” dall’espressione dialettale apparentemente coerente con le origini calabresi (precisamente, del reggino) di B. –l’accusa sostiene la colpevolezza dell’imputato. Poiché l’impronta è certamente la sua – si dice –, è lui che ha commesso la rapina e tutti i reati satelliti conseguenti.

Basta questa sola prova per pronunciare un giudizio di responsabilità ?

Secondo lo scrivente la risposta è decisamente negativa.

Non siamo in grado di dire perché l’impronta di B. si trovasse sullo specchietto dello scooter e non è certo l’imputato che deve fornire questa spiegazione. Può essere che effettivamente sia stato lui uno dei rapinatori (peraltro, almeno durante la rapina, è certo che entrambi indossassero guanti); può essere che B. abbia rubato il motociclo per poi cederlo ai rapinatori, può essere che B. abbia ricevuto il motociclo dopo la rapina, può essere che – per pura fatalità – B. ebbe ad incrociare il motociclo da qualche parte, per le vie della città.

Nessuno di queste possibilità alternative è dotata di credibilità razionale dirimente rispetto alle altre. Optare per l’una o l’altra delle possibilità diviene un esercizio di giudizio meramente soggettivo sul quale non può fondarsi una sentenza di condanna.

Né molto di più viene dalla frase pronunciata in dialetto calabrese. B. è nativo di Cinquefrondi, ma nessuno (almeno in questo processo) sa se egli sia mai vissuto in Calabria (ad esempio la sua storia criminale è tutta al nord) e se parli il dialetto reggino. Inoltre egli non è l’unico – in ogni caso – a parlare quel dialetto a Milano.

Tutto ciò, a giudizio del sottoscritto, sarebbe già più che sufficiente per addivenire ad una sentenza di assoluzione.

In realtà, il discorso può anche essere più complesso e completo.

Immaginiamo che l’impronta sia stata lasciata sicuramente dall’autore della rapina, che non esista altra spiegazione al fatto che quell’impronta sia lì. Il risultato della comparazione – è cioè che l’impronta appartiene a B. – basta per condannare B. al di là di ogni ragionevole dubbio ?

La risposta è ancora negativa. Per comprenderlo, basta fare applicazione di alcune nozioni statistiche di base che – pur nell’inconsapevolezza di molti – sono di uso quotidiano in corte perché a fondamento, ad esempio, della prova genetica.

Partiamo da un esempio. Immaginiamo che il soggetto A si sottoponga ad un test per l’Hiv per il quale il produttore riporta una percentuale di falsi positivi dello 0,1%. Il test, per A, è positivo. Qual è la probabilità che egli sia portatore del virus Hiv ? Intuitivamente verrebbe da dire il 99,9%, contro lo 0,1% di possibilità che A sia proprio il falso positivo.

Ebbene, la risposta è sbagliata perché un conto è rispondere alla domanda: “qual è la possibilità che si abbia un test positivo, dato che la persona testata è sana ?” e un conto e rispondere alla domanda: “qual è la probabilità che la persona testata, dato il risultato positivo del test, sia portatrice del virus ?”.

Per rispondere alla seconda domanda è necessario prendere il considerazione la probabilità a priori e cioè la probabilità che la persona sia malata a prescindere dal test.

Se A appartiene a un gruppo a basso rischio (non si droga, non fa sesso promiscuo, non richiede trasfusioni o usa aghi intravena..), ad esempio, la probabilità di essere malato è di circa 1 su 10.000. Ovvero, ogni 10 mila persone si troverà un contagiato.

Ora, se A viene sottoposto al test e risulta positivo, la probabilità che egli sia effettivamente portatore del virus dipende – secondo il teorema di Bayes – dall’applicazione della seguente formula: probabilità a posteriori = rapporto di verosimiglianza X probabilità a priori.

Se abbiamo detto che il test ha un tasso di accuratezza del 99,9% (e assumendo che i falsi negativi siano pari a 0) sarà facile calcolare il rapporto di verosimiglianza che è dato da:

probabilità che il test risulti positivo dato che la persona testata è positiva (1 visto che abbiano assunto il falso negativo pari a 0) / probabilità che il test risulti positivo dato che la persona testata è negativa (0.001)

1/0.001 = 1,000

Quanto alla probabilità a priori (abbiamo detto che, nel gruppo, 1 su 10mila è malato), questa sarà data da:

probabilità che la persona sia portatrice del virus/ probabilità che la persona non sia portatrice

0.0001/(1 – 0.0001) circa uguale 0.0001

Quindi la probabilità a posteriori sarà 1,000 X 0.0001 = 0,1

Se si vuole stabilire quali sono le probabilità che A sia malato in caso di test positivo, basta fare probabilità a posteriori/1 + probabilità a posteriori

0,1/1+0,1 = 1/11

Cioè la probabilità della malattia è di 1/11, cioè solo del 9%. Mentre la probabilità di essere sani, nonostante il test, è del 90,91%. In dieci casi il risultato sarà espressione di un falso positivo e solo in un caso corrisponderà all’effettiva presenza dell’infezione.

Se torniamo un attimo al principio, e cioè all’intuizione (errata) che, in caso di test positivo con accuratezza del 99,9%, A ha solo lo 0,1% di possibilità di non essere un portatore, si può comprendere l’enorme impatto valutativo che può avere l’erronea applicazione delle regole statistiche.

Questo errore è causato dalla cosiddetta fallacia del condizionale trasposto: invece di rispondere alla domanda su quale sia la possibilità che una persona sia sana in presenza di un test positivo si risponde alla domanda qual è la possibilità che il test sia positivo se la persona è sana.

Ora, quando si deve valutare l’idoneità di una prova (scientifica) a sostenere un giudizio di colpevolezza il ragionamento è esattamente identico. Cambiano solo i termini di riferimento.

Quindi, alla probabilità che il soggetto sia portatore del virus Hiv si sostituisce la probabilità che la persona sia colpevole a prescindere dalla prova scientifica disponibile (probabilità a priori). Al grado di affidabilità e successo del test si sostituisce il grado di affidabilità della prova scientifica (rapporto di verosimiglianza). Il prodotto di questi due valori ci fornirà la probabilità a posteriori cioè la probabilità che, data la prova, l’accusato sia colpevole. Tuttavia, a differenza dell’esempio sul test Hiv, in questo caso la probabilità a priori non è oggettivamente misurabile, ma dipende dalla soggettiva valutazione del giudice. E questo complica un po’ le cose.

Dunque, di fronte ad un test del Dna che lega l’accusato al crimine con una percentuale del 99,9% è totalmente erroneo affermare che quella persona ha solo lo 0,1% di probabilità di non essere autore del fatto. Ancora una volta si confonderebbe la probabilità che sussista un match data l’innocenza della persona con la probabilità dell’innocenza della persona, dato il match. E si ribadisce ancora che sarebbe totalmente inaccettabile trascurare la correttezza statistica dell’utilizzo della prova genetica, quando quel 99,9% che si vuole valorizzare è esso stesso frutto dell’applicazione di regole statistiche. E come dire che la statistica va bene quando fa comodo e no quando è scomoda.

Veniamo dunque, al nostro caso. Qui la vicenda è ancora più problematica perché, a dispetto di quel che si potrebbe credere, l’analisi delle impronte digitali non può contare su alcun dato statistico che ne confermi, oggettivamente, l’attendibilità. L’affermazione per cui esiste un’identità tra due impronte non è oggettivamente misurabile, come accade per la prova genetica, ma è il frutto di un giudizio soggettivo basato sulla competenze e sull’esperienza di chi conduce l’analisi. Nel sistema legale italiano, questo giudizio è ancorato al dato – del tutto empirico nella sua significatività e piuttosto anacronistico – della presenza di almeno 17 minuzie (piccoli particolari) corrispondenti tra le impronte da comparare (approccio quantitativo). E infatti questo è l’unico parametro fattuale che si legge nella relazione della polizia scientifica in atti (ed è anche singolare che l’esperto forense adotti un criterio eminentemente giuridico, per corroborare la propria conclusione).

Mentre in altri paesi al criterio quantitativo si è sostituto quello qualitativo, che tiene conto della tipologia delle minuzie comuni.

Ma al di là di questo aspetto e ancora prima di esso, non esiste alcuna dimostrazione scientifica del fatto che due individui non possano avere impronte uguali (meglio, non esiste alcuno studio che dimostri la frequenza di determinate caratteristiche papillari nella popolazione di riferimento). E quindi viene meno il presupposto, invece fondamentale in materia genetica, per dare una dimensione numerica alla possibilità della corrispondenza fortuita tra due impronte. Quindi, per le impronte digitali, non è misurabile la random match probability.

All’errore dovuto alla intrinseca debolezza scientifica del metodo va, inoltre, aggiunto l’errore di laboratorio, cioè quello imputabile all’esperto, il cui giudizio può essere deviato da numerosi fattori di condizionamento arcinoti, sui quali non è possibile qui soffermarsi.

Nessuno di questi due aspetti viene neppure lontanamente affrontato nella relazione della polizia scientifica (peraltro, assolutamente coerente con quanto regolarmente si vede in questi casi), il cui contenuto è esclusivamente descrittivo delle operazioni svolte. Il risultato viene semplicemente comunicato, senza specificare il suo grado di attendibilità.

Quindi, il rapporto di verosimiglianza può essere solo stimato.

Certo è che è del tutto irrealistica, anche perché smentita da numerosi studi e diversi clamorosi errori giudiziari, che il fingerprint possa pare affidamento su uno “zero error rate”.

Le stime sul base error rate del fingerprint sono assai variabili. Senza complicare troppo, possiamo dire qui che si assume un valore, estremamente favorevole al metodo, dello 0,1%.

Va ora stabilita la probabilità a priori. In assenza di altri elementi, questa probabilità sarebbe sostanzialmente coincidente con la intera popolazione maschile attiva. Qui possiamo restringere il campo, assumendo che il colpevole sicuramente ha origine calabrese o comunque conosce il dialetto calabrese (di Reggio in particolare) ed è relativamente giovane (comunque in grado di effettuare un’azione violenta e repentina). Mentre, ad esempio, non possiamo affermare che egli viva necessariamente a Milano. Non è,

infatti, infrequente il caso di rapinatori che operano in trasferta, provenendo da altre aree del territorio. Non è neanche detto che il colpevole debba per forza avere una storia criminale, poiché non solo i recidivi commettono reati.

Quanti persone, in Italia, corrispondono a questo modello di agente assolutamente generico ? Mille, diecimila, centomila ? Difficile dirlo.

Bene, prendiamo un valore assolutamente irrealistico per difetto per cui la probabilità a priori che l’imputato sia colpevole è di 1/1000. Con una prova scientifica certa al 99,9%, la probabilità di colpevolezza è di ½. Cioè l’identificazione di B. può essere frutto di errore al 50%. (1 un caso su 2 è un falso positivo). Il che è chiaramente insufficiente per affermare la sua responsabilità. Infatti, se la colpevolezza deve essere provata al di là di ogni ragionevole dubbio, avremo bisogno di una probabilità a posteriori prossima a 100/1 .

Se il gruppo di potenziali colpevoli sale a 10 mila, la probabilità che B. sia effettivamente colpevole – in presenza di una identificazione papillare positiva – scende a 1/11.

Con una probabilità a priori di 1/1000, la prova scientifica deve avere un tasso di errore pari ad 1/100.000 per ottenere una probabilità di colpevolezza soddisfacente per un giudizio penale e cioè superiore al 99%. Con una probabilità a priori di 1/10.000 solo una prova con un tasso di errore più basso di 1/1.000.000 genera una probabilità di colpevolezza pari al 99%. E non è nota una prova scientifica che goda di un livello così elevato di affidabilità (si ripete, considerando anche l’errore di laboratorio).

In definitiva, la sola prova scientifica – priva di robusti elementi di conferma – non è in grado di sorreggere la pronuncia di una sentenza di condanna.

Anche per questa ragione B. va assolto.

P.Q.M.

Visti gli art. 442-530, comma 2° c.p.p.

ASSOLVE

B. C. dai reati a lui ascritti e di cui alla rubrica per non avere commesso il fatto

FISSA in giorni trenta il termine per il deposito delle motivazioni

DICHIARA cessata la efficacia della misura cautelare in atto, ordinando la liberazione di B. se non detenuto per altro

MANDA

alla cancelleria per quanto di competenza

Milano, 18 giugno 2015

Il Giudice

dr. Giuseppe GENNARI